Dal vertice di Salonicco all’Open Balkan, vent’anni di promesse, annunci e veti incrociati nella sala d’attesa d’Europa. Il conflitto russo-ucraino ha riaperto i dossier d’integrazione all’Ue dei Balcani occidentali, ma l’oriente è sempre più vicino
Un’Europa concentrica
Nell’estate del 2014 Jean-Claude Juncker assumeva la carica di Presidente della Commissione europea e nel suo programma politico, significativamente intitolato “Un nuovo inizio per l’Europa. Il mio programma per l’occupazione, la crescita, l’equità e il cambiamento democratico”, riportava a chiare lettere che il processo di allargamento doveva fermarsi temporaneamente per permettere all’Unione e ai suoi cittadini di digerire le 13 nuove adesioni. I Balcani avrebbero mantenuto un panorama europeo, ma senza possibilità di adesione nel breve termine.
È sul finire di quella calda estate che Angela Merkel, al suo terzo cancellierato, decide di promuovere un’importante iniziativa diplomatica nel sud est Europa: il Processo di Berlino.
A 11 anni dal Consiglio europeo di Salonicco, l’integrazione dei Balcani occidentali tra tensioni intra-regionali e gap economici con i paesi comunitari, procedeva a passo di lumaca e nelle priorità di Bruxelles non rientrava il dossier allargamento.
Questa perdita di slancio lasciò un vuoto nella regione e, come accade in questi casi, non mancano i nuovi attori disposti a riempire questi spazi, vedi Russia, Turchia e Cina.
Da qui l’idea di rilanciare il processo europeo, senza troppe implicazioni per i Paesi dell’Unione: un modo per mantenere agganciata la WB6 (Western Balkans 6) all’Ue, senza indispettire le principali capitali europee che ancora non avevano superato le conseguenze economiche e migratorie del vasto allargamento del 2004 e le nascenti posizioni incendiarie dei governi populisti.
Negli anni si sono susseguiti summit (Vienna 2015, Parigi 2016, Trieste 2017, Londra 2018, Poznań 2019, Sofia 2020, 2021 virtuale) con la partecipazione dei WB6, rappresentati delle istituzioni europee e finanziarie e i paesi con interessi radicati nell’area (Germania, Italia, Austria, Francia, Regno Unito, Slovenia e Croazia): un piano economico che si impegna a destinare risorse intorno a iniziative “faro” dai trasporti alle energie rinnovabili, dalla transizione ecologica all’agenda digitale, supportati dai fondi europei di pre-adesione e fondi coperti dalla Banca europea per gli investimenti, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo e la Banca tedesca d’investimento.
Gli sviluppi geopolitici, nel 2018 spingono Juncker a tornare sui suoi passi e, dopo uno storico discorso sullo stato dell’Unione, ribalta il suo programma politico per imbarcarsi in un tour senza precedenti nella regione, in cui non si limita a ribadire la prospettiva Ue, ma rilancia con date certe, allargando l’orizzonte del 2025 a tutto il blocco (inizialmente previsto solo per Serbia e Montenegro).
Il 2019 è l’anno di Open Balkan, ambizioso progetto di libera circolazione presentato in pompa magna come un mini-Schengen: per alcuni un ulteriore spinta verso l’Europa, per altri una pericolosa alternativa isolazionista.
Open Balkan nasce fuori dai canali europei e su spinta del leader serbo Aleksandar Vučić, appoggiato da Albania e Macedonia del Nord.
Nel dicembre dello scorso anno a Tirana fu annunciato il primo traguardo: l’introduzione di un unico permesso di lavoro per i tre paesi, mentre, nel più recente summit di Ohrid, un nuovo accordo affronta la gestione dell’evasione fiscale, la cooperazione transfrontaliera per il turismo e la cultura e il riconoscimento dei diplomi di studio.
A dispetto dei proclami però, gli accordi non prevedono di eliminare progressivamente i controlli alle frontiere e tantomeno di introdurre la libertà di circolazione per tutti i cittadini.
Finora la discussione pubblica è stata concentrata sugli annunci politici, mettendo da parte i reali contenuti, in un continuum di poca trasparenza che caratterizza la politica balcanica.
Sotto la lente l’”Accordo sulle condizioni per il libero accesso al mercato del lavoro nei Balcani occidentali” firmato il 21 dicembre: non si disciplinano i diritti di libera circolazione, soggiorno e lavoro in genere, ma solo i diritti nell’ottenimento dell’impiego in un altro Stato. L’accesso al mercato del lavoro dovrà essere approvato di volta in volta dallo Stato ospitante, con possibilità di rinnovo del permesso, ma anche di revoca in specifici casi, sempre a discrezione del Paese.
Seppur a condizioni semplificate, i diritti al lavoro e al soggiorno continuano ad essere regolamentati, contraddicendo apertamente la genesi dell’accordo.
Stessa strada intrapresa anche nella cooperazione per la sicurezza veterinaria, fitosanitaria, alimentare e dei mangimi, nel quale non vengono spalancate le frontiere, ma conservate più esplicitamente le regolamentazioni vigenti.
Al di là degli annunci, per ora Open Balkan non sembra condurre in porto i suoi principi fondanti, al contrario, alimenta le paure di alcuni di aggiungere squilibri nella crescita e nella produttività dell’area, cementando il predominio della prima della classe: la Serbia.
«Questa è un’iniziativa che serve gli interessi egemonici della Serbia nella regione» ha più volte ribadito il Capo di Stato kosovaro Vjosa Osmani, diffidente sin dall’inizio, sostenendo che i sei Stati dei Balcani occidentali dovrebbero concentrare le proprie forze nel Processo di Berlino supportato dai partner europei.
Più volte si è fatto riferimento al Piano Schuman che, nel 1950, preparò il terreno ad un’alta autorità per superare le storiche dispute tra Germania e Francia nella produzione di carbone e acciaio. Il Piano affrontò le preoccupazioni francesi e le richieste tedesche post-belliche, portando alla creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, primo passo verso l’Unione europea che conosciamo oggi.
Un meccanismo sovranazionale quindi, legato interamente alle norme Ue, che faccia da antidoto ai risentimenti e che accompagni la regione in un unico blocco.
Al momento Open Balkan trova il solo consenso di Serbia, Albania e Macedonia del Nord, i Paesi fondatori.
Nell’ultimo incontro Bosnia-Erzegovina e Montenegro hanno partecipato come osservatori, ma la reticenza è ancora forte, in bilico tra la paura di inficiare l’integrazione europea e il timore che le lungaggini comunitarie le stringano in un perenne limbo isolazionista.
Ma visto che al peggio non c’è mai fine, il 9 maggio, durante l’evento conclusivo della Conferenza sul Futuro dell’Europa, un nuovo disegno per il continente ha visto la luce.
Il Presidente Macron ha proposto la creazione di una Comunità politica europea, ennesimo surrogato dell’Ue che rischia di declassare ulteriormente le ambizioni e l’animo dei candidati o promessi tali, garantendo altri decenni nel girone dei dannati all’attesa.
Un progetto che ci riporta al capodanno dell’89 quando, a poche settimane dalla caduta del muro di Berlino, François Mitterrand suggerì una Confederazione europea per «associare tutti gli stati del continente in un’organizzazione comune e permanente per gli scambi, la sicurezza e la pace».
«Nel nuovo contesto geopolitico dobbiamo trovare la via per dare unità e stabilità al continente, senza squilibrare la nostra Unione – ha dichiarato Macron a Strasburgo -, abbiamo il dovere storico di dire che l’adesione non è l’unica risposta e aprire una riflessione sull’organizzazione politica di tutta l’Europa».
Al contempo, il Presidente francese ha rilanciato l’intenzione di una revisione dei Trattati, il cui obiettivo sarà superare il principio dell’unanimità, consentendo di avere ‘strumenti solidali’ su questioni centrali quali l’economia, l’occupazione e il clima. Una Ue a più velocità per impedire l’ostruzione dei veti politici.
Ed è sul veto di un paese membro, la Bulgaria, che Macron si è concentrato al tramonto del semestre di presidenza guidato dalla Francia.
In uno spericolato tentativo di portare a casa il risultato al novantesimo, ha promosso una bozza di accordo per superare la disputa identitaria tra Sofia e Skopje: la Macedonia del Nord dovrà includere la componente bulgara nella Costituzione come popolo fondatore, tale riforma dovrà essere programmata prima dell’inizio dei negoziati europei.
Il 24 giugno a Sofia, nel pieno di un uragano politico che ha portato alle dimissioni del primo ministro Petkov e alle quarte elezioni in un anno e mezzo, il Parlamento ha dato il via libera per revocare condizionalmente il veto. Il 16 luglio è arrivato anche quello del Parlamento macedone, favorevole alla proposta francese aggiornata.
Tuttavia, nonostante il successo diplomatico sponsorizzato da Commissione e Consiglio europeo, i nodi non sono ancora sciolti.
A Skopje il Parlamento ha approvato la mozione francese con una maggioranza semplice di 68 deputati su 120, l’opposizione ha abbandonato l’aula e ha annunciato che non parteciperà al voto di modifica della Costituzione. Nell’attuale quadro politico le modifiche costituzionali necessitano di una maggioranza di due terzi, senza i voti mancanti il processo europeo sarà di nuovo bloccato.
Secondo i nazionalisti di Vmro-Dpmne (Partito Democratico per l’Unità Nazionale Macedone) la proposta rafforzerebbe solo le argomentazioni bulgare, con il rischio di trascinarle nel più ampio quadro negoziale con l’Unione europea.
Tra le criticità della proposta francese c’è il pericoloso precedente di un intervento sulle questioni storico-culturali di una nazione, nulla che rientri nell’acquis communautaire. Per giunta, finché l’approvazione degli Stati membri dovrà passare all’unanimità, non si possono escludere nuovi stop. E non bisogna andare troppo lontano con l’immaginazione per ipotizzare uno scenario del genere, dal momento che il Parlamento bulgaro sulla questione è stato chiaro: «Nulla del processo di adesione della Macedonia del Nord all’Ue può essere interpretato come riconoscimento bulgaro dell’esistenza di una lingua macedone».