Dal vertice di Salonicco all’Open Balkan, vent’anni di promesse, annunci e veti incrociati nella sala d’attesa d’Europa. Il conflitto russo-ucraino ha riaperto i dossier d’integrazione all’Ue dei Balcani occidentali, ma l’oriente è sempre più vicino
Il cavallo di Troia
Con il senno di poi, la finestra aperta nel 2004 fu chiaramente un’eccezione irripetibile. Spinta dall’alto valore simbolico di unire l’Europa divisa dalla guerra fredda e frutto di un percorso guidato dalla Commissione europea, nel tempo in cui i Paesi erano occupati a discutere di un Trattato costituzionale che non vedrà mai la luce.
Da allora un vuoto condito di promesse ha avvolto i Balcani occidentali, ma a ben vedere i vuoti non rimangono mai tali troppo a lungo.
Dalla crisi del debito sovrano nel 2010, alle misure di austerità, dalla rivoluzione ucraina del 2014, alle ondate migratorie del 2015, fino alla pandemia e all’invasione russa. Nell’agenda europea c’è sempre un’altra priorità.
Così, superata la sbandata europea dei primi anni 2000, i WB6 hanno accolto, in dosi diverse, le ‘regalie’ provenienti da est, agevolate da politiche nazionali ambigue, mala gestione delle risorse pubbliche e da diffusi fenomeni di corruzione.
In Serbia il Partito progressista (SNS) guidato da Aleksandar Vučić «ha costantemente eroso i diritti politici e le libertà civili, esercitando pressioni sui media indipendenti, sull’opposizione politica e sulle organizzazioni della società civile» denuncia il rapporto Freedom in the World 2022 dell’organizzazione non governativa Freedom House.
Il Paese candidato ad entrare in Ue, ma non allineato alla politica estera di Bruxelles, da anni coltiva una neutralità di facciata.
Esempio calzante è stato il voto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: favorevole alla risoluzione di condanna dell’invasione russa, ad accogliere i rifugiati ucraini, ma contrario ad attuare sanzioni commerciali e finanziarie, come già avvenuto nel 2014.
Al graduale taglio del gas delineato dalla Commissione europea, Belgrado ha risposto col rinnovo di altri tre anni, a ‘condizioni estremamente favorevoli’, del contratto per la fornitura del combustibile da Mosca, per 2,2 miliardi di metri cubi. Stando a quanto anticipato da Vučić, nel prossimo inverno il prezzo potrebbe scendere a un decimo di quello pagato dal resto d’Europa.
«L’obiettivo della Serbia, aiutata dalla Russia, è creare tensioni nel nord perché è nell’interesse della Russia allargare il conflitto e ampliare l’attenzione della comunità internazionale» ha denunciato la Presidente kosovara Vjosa Osmani, preoccupata dai rischi di un’escalation attraverso lo strumento della guerra ibrida o per procura, nel nord del paese a maggioranza serba.
Non va meglio in Bosnia-Erzegovina, popolata da oltre 1 milione di persone di etnia serba, per lo più concentrate nella Repubblica Srpska.
A 27 anni dagli accordi di Dayton, il leader serbo Milorad Dodik, Presidente di turno della tripartita Federazione, dopo aver messo il veto a qualsiasi misura punitiva nei confronti di Mosca, non rinuncia al progetto di secessione sul modello Donetsk e Luhansk. Ha adottato una rigida tabella di marcia per ritirarsi dalle principali istituzioni come l’esercito federale, l’amministrazione fiscale e il massimo organo giudiziario, per costituirne di parallele e autogestite.
E la Russia, come riferito da Dodik a margine del Forum economico internazionale di San Pietroburgo, contribuirà attraverso lo sviluppo della rete infrastrutturale, con la costruzione di un gasdotto e due centrali elettriche, una a Banja Luka e una a Prijedor.
L’Ue ha ampliato le forze dell’EUFOR, la missione di mantenimento della pace in Bosnia-Erzegovina. Il Regno Unito ha inviato, su richiesta della NATO, un gruppo di esperti militari per contrastare le influenze russe ed «evitare le fiamme del secessionismo e del settarismo», riferisce una nota del governo britannico.
Nel contesto descritto, carico di significato è il rapporto privilegiato di Recep Tayyip Erdoğan con la componente musulmana della Bosnia-Erzegovina, un lascito del passato ottomano nell’area. Il Presidente turco negli anni è riuscito a creare un ponte con l’etnia serbo-bosniaca e la Serbia di Aleksandar Vučić, garantendosi un posto in prima fila nella futura gestione della partita.
Solo lo scorso anno Erdoğan è riuscito a conciliare le due entità della Bosnia-Erzegovina dando il via libera alla costruzione di un importante tratto autostradale che collegherà Sarajevo a Belgrado e assicurerà alla Turchia una significativa commissione nella costruzione e nel finanziamento dell’opera. Ha avviato la donazione di oltre 30mila vaccini anti Covid-19 in un Paese fortemente provato dall’emergenza. Ha siglato un accordo sul riconoscimento reciproco e lo scambio delle patenti di guida, aprendo a nuovi collegamenti regionali e si è erto facilitatore delle dispute tra Bosnia-Erzegovina, Croazia e Serbia.
A distanza, ma non troppa, la silenziosa Cina continua a costruire il suo impero del debito.
Secondo un rapporto del Center for the study of Democracy, gli investimenti di Pechino si sono concentrati nei settori chiave dei trasporti, dell’energia, della produzione e delle telecomunicazioni.
«Gli afflussi di capitali cinesi nella regione costituiscono una piccola quota (2,7%) del totale degli investimenti cinesi nel mondo, tuttavia rappresentano un trasferimento di risorse finanziarie significative rispetto alle dimensioni delle economie» sottolinea il rapporto. Serbia, Bosnia-Erzegovina e Montenegro i paesi con maggior impronta economica cinese. In Bosnia-Erzegovina (16,1% del PIL) e Montenegro (18,5% del PIL) gli accordi intergovernativi basati sui prestiti rendono le economie regionali particolarmente vulnerabili.
D’esempio è il debito monstre di più di 800milioni aperto dell’ex Primo Ministro montenegrino Đukanović con la Bank of China per la costruzione di 165km di tratto autostradale, da Boljare a Bar. Solo l’intervento di due banche americane e due europee, secondo quanto riferito dall’ex ministro delle finanze Milojko Spajić, ha permesso il pagamento della prima rata del debito. Evitato l’infausto destino del porto Hambantota nello Sri Lanka, la cui quota di maggioranza fu ceduta a Pechino per 99 anni a causa dell’insolvenza del Paese.
«L’attrattiva dei Balcani occidentali rispetto agli stati membri dell’Ue è che gli investimenti cinesi non devono rispettare le rigide norme dell’Ue in materia di trasparenza, concorrenza e ambiente, su questioni come gli appalti pubblici, la valutazione d’impatto e gli aiuti di Stato». L’impronta economica cinese nell’Europa centrale e orientale - Center for the study of Democracy
La Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno definito alcuni di questi progetti come ‘fiscalmente irresponsabili’, contribuendo in modo limitato alla crescita delle economie per via di clausole contrattuali che prevedono il coinvolgimento di società statali cinesi e l’utilizzo di mano d’opera cinese.
Intanto, con la consegna in aprile di una partita di missili terra-aria HQ-22 alla Serbia, nel pieno dell’invasione russa in Ucraina (la consegna sarebbe stata concordata già nel 2019), Pechino sta alzando l’asticella della sua presenza. Punta a scalfire la sfera d’influenza americana sul fronte est servendosi dei Paesi poco inclini ad allinearsi alle politiche di Washington e Bruxelles.
L’arma economica
Dopo il 24 febbraio rompere l’impasse balcanica è diventata una priorità.
Bruxelles sta mostrando i muscoli a Putin, ma dovrà migliorare le sue prestazioni sul fronte del consenso e della coesione nei confronti dei partner del sud est Europa, nuovo possibile terreno di scontro.
Nei Balcani ormai si parla di Ue da decenni e, fatte le dovute eccezioni, c’è una diffusa maggioranza favorevole, il problema è che non riesce ancora a generare una spinta elettorale tale, da spodestare le élite politiche storiche.
L’allineamento ai Paesi comunitari è sempre stato un processo guidato da leader di lungo corso, desiderosi di accedere all’ampio bacino di finanziamenti, ma superato lo scoglio della liberalizzazione dei visti (il Kosovo è l’unico Paese ancora in attesa), gli stimoli immediati sono sempre stati meno, soprattutto quando le riforme europee vanno a minare le politiche interne.
A maggior ragione in comunità multietniche come quelle dei Balcani occidentali, dove certamente la condivisione del potere ha aiutato ad ereggere società più stabili, ma per sopravvivere e competere, i leader hanno bisogno di costruire e coltivare nel tempo una ricca clientela.
Come fa notare il rapporto dell’organizzazione non governativa Transparency International, «l’impunità per la corruzione ad alto livello e le leggi su misura» sono fattori chiave che comportano l’indebita appropriazione dello Stato da parte dei privati e dei partiti politici.
Un processo che riduce l’effetto e la visibilità delle riforme europee, offrendo terreno fertile ad attori internazionali.
Emblematiche le dichiarazioni attorno all’ultimo incontro dell’Open Balkan ad inizio giugno. Con un gioco al rilancio, da più parti è andato in scena il tentativo di intestarsi l’iniziativa.
Tutto è iniziato nei giorni precedenti. «Un Paese sovrano è stato privato del suo diritto di condurre una politica estera. Le attività internazionali della Serbia, legate alla Russia, sono state bloccate». Con queste parole il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, denunciava l’impossibilità di raggiungere Belgrado, a causa della chiusura dello spazio aereo da parte di Bulgaria, Montenegro e Macedonia del Nord.
Una mossa vista dal Cremlino come un’evidente ostilità nei confronti della Russia e dei suoi partner. «La Nato e l’Ue vogliono trasformare i Balcani in un loro progetto chiamato ‘Balcani chiusi’» ha aggiunto Lavrov, rinnovando poi il pieno sostegno al progetto sponsorizzato dalla Serbia, svincolato dagli apparati europei.
Il giorno seguente arriva l’annuncio che Oliver Varhelyi, Commissario europeo per l’allargamento, avrebbe partecipato alla seconda giornata di incontri.
«Accolgo con favore il rinnovato impulso dei leader dei Balcani occidentali a progredire nell’integrazione regionale. La guerra che la Russia ha condotto in Europa è un campanello d’allarme sulla necessità di accelerare il processo di adesione all’Ue, un investimento geostrategico per la stabilità e la sicurezza dell’intera Europa […] Ma sia chiaro, il pieno potenziale del nostro ambizioso Piano economico e di investimento da 30 miliardi di euro a sostegno dei Balcani occidentali sarà raccolto solo con tutti e sei» Oliver Varhelyi - Commissario europeo per l'allargamento
Sulla stessa linea va interpretato il videomessaggio statunitense del Vicesegretario aggiunto per l’Europa centrale e meridionale Gabriel Escobar che ha incoraggiato l’iniziativa, ma ha lanciato un monito affinché non si trasformi in un progetto politico: «È un progetto economico importante nella misura in cui rimarrà economico e incentrato sulla creazione di opportunità per le persone della regione».
A conferma del rinnovato interesse americano, il 5 agosto la senatrice statunitense Jeanne Shaheen, Presidente della sottocommissione per le relazioni estere del Senato per l’Europa e la cooperazione per la sicurezza regionale, ha presentato un disegno di legge bipartisan denominato Western Balkans Democracy and Prosperity act, un’iniziativa che dà seguito al viaggio dello scorso aprile in Serbia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo.
Il provvedimento mira a sostenere lo sviluppo economico e la sicurezza dei Balcani occidentali, intervenendo su infrastrutture, commercio e lotta alla corruzione. Verranno istituite sanzioni per scoraggiare attività destabilizzanti e promossi Peace Corps e nuove leadership giovanili.
“Tra la guerra non provocata della Russia in Ucraina e le chiare ambizioni di Putin di diffondere influenza maligna in tutta l’Europa orientale, il rapporto degli Stati Uniti con i Balcani occidentali è fondamentale” ha dichiarato la senatrice a margine della presentazione. “Sono orgogliosa di introdurre una nuova legislazione bipartisan che rafforza il commercio e gli investimenti tra gli Stati Uniti e i Balcani occidentali, sradicando la corruzione locale e codificando le sanzioni contro gli attori destabilizzanti, il che apre la strada a una maggiore integrazione euro-atlantica”.
Senza dubbio, negli ultimi due decenni nei Balcani occidentali l’integrazione economica regionale è nettamente progredita, ma è difficile pensare che ulteriori iniziative solo tra 6 paesi, il cui PIL supera di poco quello della Slovacchia, incidendo meno dell’1% in quello più ampio dell’Unione europea pre-Brexit, possano determinare una crescita dell’area.
Progetti come Open Balkan potrebbero influire nella dimensione politica e sociale, normalizzando le relazioni, ma in ambito economico la regione ha bisogno di una maggiore integrazione con l’Unione europea.
«Il modo più efficace per migliorare la cooperazione regionale all’interno dei Balcani occidentali è attraverso politiche volte ad aumentare i redditi» è il sentiero tracciato dal Vienna Institute for International Economic Studies.
Secondo il rapporto A new EU strategy for the Western Balkan gli standard di vita dell’area «sono in ritardo non solo rispetto a quelli dei vecchi Stati membri dell’Ue, ma anche a quelli dei nuovi Stati membri dell’Europa centrale e orientale (UE-CEE)», dove il commercio è aumentato di quasi il 50% dopo l’adesione all’Unione europea.
La strada più veloce è «garantire alle economie dei Balcani occidentali il pieno accesso al bilancio dell’Ue – continua il rapporto -. I costi per gli attuali Stati membri dell’Ue sarebbero marginali, inferiori allo 0,05% del PIL di ciascun Paese, mentre gli effetti per le economie dei Balcani occidentali sarebbero sostanziali […] Questo è molto inferiore a quello che i paesi UE-CEE riceveranno da Next Generation EU, dove gli importi variano dal 3 al 5% del loro PIL, ogni anno».
Con un conflitto in corso alle porte dell’Europa e l’acuirsi delle tensioni nel Pacifico, l’ingerenza nei Balcani continuerà a rappresentare un’opportunità a basso rischio per contrastare le norme a guida americana.
L’immobilismo dell’Ue e il parziale disinteresse degli Stati Uniti hanno fatto sì che i Balcani occidentali prestassero il fianco all’impero del debito cinese, alle infiltrazioni neo-ottomane di Ankara e alla disinformacija russa in chiave anti-occidentale.
L’Unione europea negli anni avvenire si giocherà gran parte della sua credibilità e della sua sicurezza nella gestione della partita balcanica. Il cambio di marcia prodotto dal conflitto russo-ucraino non si tradurrà automaticamente in miglioramenti nel campo della libertà, della corruzione e dell’economia, non ci sono soluzioni rapide a problemi endemici.